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dal blog "la coda del gatto" di Luigi Gagliardi

Ci sono posti che parlano: tutti i luoghi hanno un’anima e basta saperli ascoltare perchè raccontino le storie di chi li vive. Ci sono crepe nei muri che stridono, lampo negli occhi di chi atterrito le ha viste avanzare fino ad abbattere le proprie case spaurite lungo la schiena dell’Appennino. Alcuni luoghi poi parlano più forte, urlano: talvolta quelle grida di dolore le senti anche dopo 32 anni. L’Irpinia è uno di questi luoghi, fatti di strepitii silenziosi avvolti da un’aura di malinconia.

Il 23 novembre 1980 era domenica, una domenica come tante: a casa mia, per esempio, a pranzo c’era la lasagna e i pasticcini con la crema come oggi tuttora tutte le sante/lascive/comuni domeniche, in campionato la Juventus aveva vinto 2-1 contro l’Inter, mia madre accudiva mia sorella Mirella che aveva appena un mese.

Alle 19:35……….un boato, le corse per le scale, urla, macerie tutt’intorno. l’Irpinia era diventata un luogo abbandonato, che sui muri delle case aveva scritto con lacrime e sangue “attenzione, pericolo crolli” e sui pavimenti cocci, polvere, sporcizia e buchi. La penna ad inchiostro nero della terra aveva lasciato un solco distorto, firma d’una catastrofe naturale dove umane altre catastrofi l’avevano già preceduta. Un minuto e mezzo di scosse, novanta secondi per spogliare la già nuda terra e vestire di incapacità le genti impreparate all’ora di cena.

Quel giorno di trentadue anni fa l’Irpina ha vissuto una delle sue tante storie tribolate, urla di rinchiusi tra le macerie e pianti di bambini lasciati soli per strada: attimi immensi che trasudano terrore, secondi come spettri di preghiere inascoltate. 23 novembre 1980: un giorno senza un tempo scandito solo da rintocco dei crolli e dai comunicati alla Rai, dalle sirene e dalle bestemmie contro un Dio che s’era voltato di spalle per meno di due minuti.

Quel giorno è stato il giorno in cui noi Irpini siamo diventati i terremotati, come se tutti gli altri cataclismi succeduti dal 1980 in poi non avessero altro nome tale che anche altri popoli d’Italia potessero meritare quest’etichetta: terremotati. Sfottò allo stadio ma peggio ancora labbro distorto di chi ha vissuto solo sugli schermi in bianco e nero quegli eventi, come se l’Irpinia allora si trovasse in un’altra nazione, su un altro pianeta. Anche io che sono nato tre anni dopo quel tragico evento sono diventato da quel 23 novembre un terremotato, come se quell’appellativo fosse disprezzo per le mie origini, sinonimo di inadeguatezza di fronte agli eventi e la vita stessa di chi, come me e le generazioni a seguire, proprio nulla c’entrano sia con il dato meramente storico che con la violenza singolare della natura.

Ci sono posti che parlano e oggi dopo oltre tre decenni siamo solo capaci di leggerne la storia, senza capirla  ma ricordando e ammettendo che ci sono posti così che ancora vivono e urlano delle urla dei vivi.



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