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Corte d’Appello di Roma, cerimonia di inaugurazione anno giudiziario: l’intervento dell'avvocato Pironti

di , Sabato, 26 Gennaio 2019

Corte d’Appello di Roma, 26.01.2019 - Cerimonia di inaugurazione anno giudiziario 2019. Intervento dell’Avvocato Fulvio Pironti - Presidente Associazione Forense Nazionale A.M.B.

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SULLA RIVISITAZIONE DELLA GEOGRAFIA GIUDIZIARIA

Ringrazio Sua Eccellenza il Presidente Panzani per l’invito rivolto all’Associazione Forense Nazionale AMB e porgo un deferente saluto al Procuratore Generale Salvi, ai rappresentanti del Ministro della Giustizia e dell’Avvocatura Generale dello Stato, ed Autorità presenti in sala. 

Le recenti intese programmatiche stilate dal governo si instradano verso la rivisitazione della geografia giudiziaria riformata nel 2012 ed appaiono volte a riportare in vita i trenta tribunali ed annesse procure traslate negli uffici  accorpanti. L’encomiabile impegno politico prevede che «Occorre una rivisitazione della geografia giudiziaria modificando la riforma del 2012 che ha accentrato sedi e funzioni, con l’obiettivo di riportare tribunali, procure ed uffici del giudice di pace vicino ai cittadini e alle imprese». L’importante previsione contenuta nel Contratto di Governo tende a ristabilire la giustizia di prossimità: ciò costituisce una grande opportunità per i trenta circondari fortemente penalizzati dalla soppressione dei relativi tribunali. Al riguardo, ci permettiamo rassegnare alcune concise e adesive riflessioni.

Sulla lesione della giustizia di prossimità

Con l’entrata in vigore del D. Lgs. 7 settembre 2012, n. 155, il Legislatore, in attuazione dell’art. 1, comma 2, L. 14.9.2011, n. 148, ha eseguito la delega al governo per la riorganizzazione degli uffici giudiziari varando un nuovo assetto della giustizia ordinaria (derivante dalla soppressione di trenta tribunali ed altrettante procure oltre 220 sezioni distaccate) in base al quale ogni distretto di corte d’appello doveva comprendere almeno tre circondari di tribunale. La ratio sottesa all’impopolare impianto riformatore è stata modellata su due obiettivi, contenere la spesa pubblica ed efficientare il sistema giustiziale.

Sobbalza sùbito all’evidenza la grave lesione scaturita dal riorganizzato apparato giudiziario germogliato sul dissolvimento di un fondamentale principio, quello della giustizia di prossimità. Esso trae origine dal riparto territoriale degli uffici giudiziari, dall’agevole raggiungimento degli stessi e dalla tangibile percezione dei presìdi giudiziari. La distribuzione degli uffici afferisce al rapporto fra amministrazione giustiziale e territorialità geografica. Dunque, il principio della giustizia di prossimità si impernia sulla ripartizione delle strutture giudiziarie considerando l’estensione del bacino di utenza, il numero degli abitanti, i carichi di lavoro, la specificità territoriale e il radicamento dei fenomeni malavitosi. In estrema sintesi, si alimenta forgiandosi dei princìpi costituzionali in tema di parità dei diritti del cittadino (art. 3 Cost.) secondo la fondamentale attuazione del decentramento amministrativo (art. 5 Cost.).

La geografia giudiziaria - ovvero la dislocazione decentrata dei molteplici uffici giudiziari sul territorio nazionale - si ritiene debba essere ispirata al principio della giustizia di prossimità prevedendo una distribuzione proporzionale territoriale delle strutture al fine di garantire a tutti i cittadini il primario diritto di accesso alla giustizia. Più segnatamente, la soppressione dei trenta tribunali minori (i cosiddetti «tribunalini») ha determinato lo spostamento giurisdizionale di vaste aree geografiche periferiche in capo ad uffici giudiziari accorpanti. Tuttavia, ciò è avvenuto senza aver prestato attenzione alle condizioni nelle quali versavano gli assi viari e i collegamenti ferroviari i quali in molti casi si sono rivelati essere oltremodo disagevoli e carenti. Vero è che il dettato costituzionale non fornisce alcuna risposta in ordine a come debba essere decentrata la giurisdizione ordinaria sul territorio per cui il Legislatore detiene uno spazio discrezionale, sia pure confinato entro certi limiti.

Stupirà, ma, ad accreditare il concetto della giustizia di prossimità, sostanzialmente smantellato dall’efferato riordino giudiziario, è addirittura la Commissione Europea per l'efficienza della giustizia (CEPEJ) del Consiglio d'Europa. Invero, mediante documento redatto il 21 giugno 2013, la Commissione Europea ha riconosciuto il valore dell'accesso alla giustizia espresso in termini di vicinanza dei tribunali ai cittadini ed evidenziato che «dover presenziare a un'udienza fissata la mattina presto per una persona anziana, o per una persona che non guida o non è dotata di mezzo proprio, in assenza di adeguati mezzi di trasporto pubblico, rappresentano tutte situazioni problematiche che possono influire sul diritto di equo accesso alla giustizia». Interpretato e riguardato in una visuale europeista, il principio di prossimità è quello secondo il quale i responsi devono essere presi il più possibile vicino ai cittadini (enunciazione rinvenibile nel TUE, art. 10, par. 3).

La revisione geografica giudiziaria è stata improntata al risparmio della spesa pubblica  - tuttavia disvelatosi illusorio - derivante dall’accentramento degli uffici e dall’accorparmento del personale amministrativo, giudicante e requirente. L’amministrazione della giustizia, un tempo prossima ai cittadini in ragione della ramificata dislocazione territoriale degli uffici, adesso risulta fortemente accentrata e distanziata. E, quindi, se in precedenza era la giustizia ad avvicinarsi al cittadino mediante le molteplici strutture capillarmente diffuse sul territorio nazionale, adesso (a séguito dell’operato accentramento) sono i cittadini a recarsi dalla giustizia i quali sono obbligati a dover percorrere, in certuni casi, tortuosi tragitti.

L’impietosa politica revisionista dei tagli lineari ha eclissato il principio della giustizia di prossimità a dispetto dei dati statistici i quali hanno dimostrato la sua efficienza e conformità ai parametri europei. Prossimità, dunque, gettata alle ortiche per privilegiare la realizzazione di macro-strutture ibride, frutto di accorpamenti inesorabilmente volti a frenare le tempistiche di risposta della giustizia. Tali ritardi, peraltro, sono riscontrabili dalla pletora di reiterati e dilatati rinvii di udienza disposti dai magistrati nelle sedi accorpate le cui basi motivazionali poggiano, come era immaginabile, sull’ipertrofico carico di procedimenti pendenti.

Orbene, la riforma ha determinato una serie di violazioni di princìpi fondamentali posti a salvaguardia dei cittadini tra cui l’art. 5 del dettato costituzionale in forza del quale la Repubblica tende ad attuare «nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo» per permettere a tutti una agevole fruizione. Confliggendo con siffatto precetto, il pacchetto riformatore ha nei fatti allontanato il cittadino dal giudice naturale precostituito per legge le cui sedi rappresentavano il prodotto di una assennata e perequata dislocazione territoriale. La violazione ha coinvolto pure l’art. 3 a mente del quale «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana… », sviluppo che si attua anche nella possibilità di ricevere tutela adeguata nelle sedi create con il richiamato decentramento della giustizia.

La tutela dei diritti non può essere confinata in angusti recinti innervati su algidi ed aritmetici ritorni economici. Del resto, fra i criteri che dovevano essere utilizzati per la corretta attuazione della delega, veniva richiamato lo stato infrastrutturale del bacino di utenza. Tale imprescindibile requisito - in taluni casi fortemente ridimensionato dalla riforma, in talaltri completamente ignorato - ricomprendeva anche il dovere di prestare attenzione al tessuto produttivo del bacino circondariale oltre all’eventuale verifica del livello di criminalità organizzata.

Meraviglia - e non poco - che la Consulta, con sentenza n. 237\2013, replicando alle censure mosse a riguardo della lesione del principio di prossimità, ebbe a rilevare, in modo alquanto generico ed approssimato, che «con riguardo alla prospettata violazione dell’art. 24 Cost., per denegata giustizia e difficoltà di accesso alla giustizia, è di tutta evidenza che non vi è impedimento o limitazione». Nella sentenza n. 59\2016 il Giudice delle Leggi ha osservato - anche in questa circostanza sbrigativamente - che «la soluzione adottata, lungi dal comportare diniego o difficoltà di accesso alla giustizia, appare come un giusto contemperamento di tutti i valori costituzionalmente protetti, compensando i limitati sacrifici degli utenti con il guadagno di efficienza del sistema».  

Un tribunale a servizio di un bacino territoriale è, quale presidio di legalità, presenza tangibile e visibile dello Stato. Siffatta presenza dovrebbe essere irrinunciabile soprattutto dove è fortemente impressa la criminalità organizzata di stampo associativo: la ritrazione di propaggini statali ha funestato talune aree determinando l’incremento di fenomeni delinquenziali sul territorio. Gli accorpamenti di una moltitudine di uffici giudiziari hanno fatto indietreggiare lo Stato da quei territori che, al contrario, avrebbero dovuto essere maggiormente presidiati da una penetrante presenza.

La poderosa sforbiciata degli uffici giudiziari ha così infragilito le fondamenta dello Stato di diritto e propalato un generale senso di rassegnazione nel cittadino il quale è costretto, per tutelare i propri diritti, a rivolgersi ad una magistratura sempre più distante. Applicare la giustizia di prossimità - diffondendola sul territorio e ravvicinandola ai cittadini - significherebbe dare una adeguata risposta per un comodo accesso ad essa in una nazione condizionata, specie nelle aree meridionali ed insulari, da rilevanti limiti infrastrutturali e infestata da inquietanti fenomeni endemici di macrocriminalità.

Sugli obiettivi riformatori inattuati

E’ indubitabile che gli obiettivi di economicità ed efficienza cui la riforma ha inteso mirare sono stati clamorosamente disattesi. Invero, i maggiori costi derivanti dai cànoni locativi delle nuove strutture, il protrarsi delle tempistiche occorrenti per la definizione delle cause (fino, in taluni casi, a raddoppiarsi) e la progressiva desertificazione economica dei territori attestano come la riforma revisionista si sia rivelata un insuccesso, come da più parti invano era stato annunciato.

Gli abborracciati accorpamenti hanno determinato molteplici criticità - peraltro preconizzate sin dagli albori - riconducibili allo stato di profondo degrado in cui versa l’intero comparto giustiziale. Il governo, rimodulando le circoscrizioni giudiziarie mediante un nutrito numero di soppressioni, si è illuso di migliorare la distribuzione delle risorse umane e materiali sul territorio e garantire una più efficace risposta alla domanda di giustizia. Riguardo all’organico del personale amministrativo, si sono registrate gravi carenze con conseguenti difficoltà degli uffici giudiziari accorpanti per fronteggiare l’inevitabile incremento degli affari giudiziari traghettato dalle sedi soppresse. Si consideri che lo stato dell’edilizia giudiziaria - spesso inadeguato antecedentemente all’introduzione dell’impianto riformatore - è andato in crisi per molti uffici a causa dall’ulteriore carico traslato dai diversi accorpamenti. Inoltre, nessun adeguamento delle strutture giudiziarie è stato posto in essere per renderli funzionali alle sopravvenute esigenze.

Sulle ignorate specificità dei territori montani

Appare utile innestare alcune riflessioni sulle ricadute economiche in alcuni territori situati sulle dorsali montuose. Taluni dei soppressi circondari si estendono su vasti territori prevalentemente montani i cui comuni sono ricompresi in aree classificate come svantaggiate (si citano, per quanto afferisce alla regione Campania, solo a mo’ di esempio, Ariano Irpino e Sant’Angelo dei Lombardi). Per avere contezza delle altitudini di taluni comuni che ospitavano i tribunali, ci piace rammentare, Mistretta (970 mt), Sant’Angelo dei Lombardi (875 mt) Ariano Irpino (817 mt), Nicosia (724 mt), Avezzano (695), Camerino (670 mt), Sala Consilina (614 mt), Montepuciano (605 mt), tutti ricadenti in zone montane disagevoli ed isolate. I tribunali che godevano di questa prerogativa sono stati soppressi in barba al coacervo di normative a favore della montagna. Ci piace credere che la giustizia sia (anche) una risorsa sicché lo Stato ha il dovere di rendere ogni attenzione evitando di depauperare i territori degli uffici giudiziari poiché essi costituiscono una delle precondizioni più significative per lo sviluppo di un territorio.

Molte di queste aree, contrassegnate da una esponenziale marginalizzazione con crescenti fenomeni emigratori in essere, si connotano per la scarsa inurbazione e dispersione della popolazione. Sono zone con popolazioni insediate in modestissimi comuni interessati da gravissimi processi desertificativi e senilizzativi. Territori, dunque, marchiati dall’inarrestabile declino demografico causato dal progressivo esodo delle nuove generazioni verso le opulente regioni settentrionali e stati esteri. Ciò inibisce e mortifica l’evolversi di un apprezzabile e decoroso futuro in loco per cui il mantenimento delle struttture di giustizia nelle zone montane avrebbe quantomeno concorso a ridare uno spiraglio di futuro. A tale pernicioso quadro, si aggiunga il ridimensionamento dei processi produttivi, risultante di una galoppante regressione economica, i cui segnali sono marcatamente evidenti e dilaganti in special modo nelle regioni meridionali.

Riandando all’esempio delle procure e tribunali del bacino arianese e altirpino, non può sottacersi che essi hanno scoraggiato le penetrazioni di gruppi malavitosi organizzati provenienti dalla Puglia e dalla stessa Campania. Né va sottaciuta la soddisfacente risposta di giustizia resa alle popolazioni dei rispettivi circondari in tempi oltremodo ragionevoli. Tali bacini sono situati sulla dorsale appenninica campana e insistono su aree montane svantaggiate e marginali caratterizzate da una molteplicità di fattori negativi (economici ed ambientali) i quali concorrono a determinare un basso livello di sviluppo.

Il Guardasigilli, manifestando una approssimata conoscenza dei territori, disattendendo gli equilibrati pareri delle commissioni giustizia, ignorando le accese proteste delle popolazioni e gli effervescenti dissensi della classe forense, con protervia inaudita non ha tenuto in debito conto la articolata normazione prevista in favore dei comuni montani. Essa, sancendo il potenziamento dei servizi pubblici nei comuni montani svantaggiati in ossequio agli artt. 44 e 119 Cost., mira alla salvaguardia e valorizzazione delle specificità culturali, economiche, sociali ed ambientali garantendo una adeguata qualità della vita dei residenti in modo da arrestare il fenomeno dello spopolamento  .

La popolazione residente nell’intero territorio montano nazionale non raggiunge il 19%. La lettura di questo dato evidenzia le peculiarità montane riassumibili nella scarsa concentrazione delle popolazioni e frammentarietà degli insediamenti abitativi. Ciò si associa, in taluni casi, a critici ed accentuati fenomeni di marginalità economica caratterizzati dallo spopolamento e invecchiamento dei residenti. Di fronte a tali desolanti scenari, lo Stato ha sempre rimarcato il concetto di tutela e preservazione delle aree montane quali diversità biologiche e culturali straordinarie, tant’è che la Carta costituzionale mostra una esplicita attenzione verso le aree montuose. Il più importante è l’art. 44, secondo comma, il quale prescrive che «la legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane». Si è suggellata la volontà di valorizzare e proteggere i territori montani allo scopo di riequilibrare le discrepanze rispetto ad altri. Si è inteso introdurre interventi infrastrutturali soprattutto in quelli ad elevata marginalità, a sostegno dei comuni montani diretti a perequare squilibri economici e divari sociali. Invece, in assoluta controtendenza, la riforma sulla geografia giudiziaria ha abolito ben otto   tribunali situati in zone montane.

La Commissione Giustizia (XVI Legislatura), purtroppo inascoltata dal Ministro, nell’apprezzabile tentativo di ridurre i deleteri effetti ablativi, suggerì, tra l’altro, di convertire i tribunali sopprimendi in sedi distaccate dei tribunali accorpanti. Per completezza, va dato atto che il Senatore Enrico Buemi, primo firmatario del disegno di legge n. 1640 comunicato il 15 ottobre 2014 e titolato «Delega al Governo per la riorganizzazione della distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari, con riordino della geografia delle corti d'appello» ha riproposto l’istituzione delle sezioni distaccate nelle sedi dei tribunali soppressi. Sarebbe auspicabile ripartire, oggi, da questi interessanti presupposti.

I motivi sottesi alla radicale rivisitazione della geografia giudiziaria si sono fondati sull’erroneo convincimento che un minor numero di sedi avrebbe comportato il risparmio di risorse finanziarie. Ha prevalso l’inesatto convincimento che il concentramento in una sede più grande, costituita da un maggior numero di magistrati, avrebbe agevolato un raffinato grado di specializzazione dei medesimi, cosa che invece non si è affatto verificata.

I soppressi tribunali sono stati erroneamente ritenuti zavorre di inefficienza dell’impianto giustiziale. Si è finto di ignorare che molti di essi sovente ricevevano il plauso dei presidenti delle corti d’appello in occasione delle annuali cerimonie inaugurali per aver sollecitamente smaltito i carichi pendenti. Iniquamente creduti acquitrini della inadeguatezza e falsamente accusati di ritardare le risposte di giustizia, il governo ha supposto aprioristicamente che il loro permanere in esistenza fosse antieconomico. Va detto, invece, che tanti di essi erano delle bomboniere sia per le accoglienti strutture edilizie accortamente ben tenute, sia per i presidenti a cui va il merito di aver svolto una capillare e sistematica vigilanza sull’operato dei magistrati e sull’andamento delle cancellerie.

Si ha ragione di supporre che la clausola di invarianza prevista nella legge delega e nel D. Lgs. n. 155\2012 non sia stata rispettata. Una istruttoria certosina avrebbe accertato 1] quali tribunali accorpanti hanno avuto necessità di acquisire nuovi spazi, 2] quali enti hanno fornito nuovi spazi e sostenuto costi per le acquisizioni e 3] quali enti hanno assunto l’onere della spesa (incluse quelle afferenti alle ristrutturazioni). Ciò è verificabile dalle deliberazioni e determine mediante le quali sono stati messi a disposizione dei tribunali accorpanti nuovi locali (compresi gli ampliamenti delle pregresse sedi), dai contratti locativi e quelli d’appalto relativi alle ristrutturazioni ed ampliamenti.

Una rigorosa istruttoria avrebbe consentito di proporre a] denunce per danno erariale alle sezioni regionali della Corte dei Conti (responsabilità degli illegittimi incrementi di spesa imputabili a seconda dei casi ad amministratori, funzionari di Enti locali, funzionari ministeriali, Ministro della Giustizia, etc.); b] istanze di annullamento in autotutela degli eventuali contratti locativi stipulati in violazione della clausola di invarianza o delle norme sulla spending review degli enti locali; c] denunce per abuso di potere in caso di mancato annullamento di tali contratti; d] ricorsi amministrativi per violazione del principio del buon andamento dell’amministrazione sempre in caso di mancato esercizio dell’autotutela. Un coacervo di azioni che avrebbe avuto quantomeno il merito di dimostrare che non tutti i connazionali sono disposti a sopportare le angherie di chi siede in posti di governo.

Conclusioni. Verso la emendazione del decentramento giurisdizionale ordinario

Se da un canto la Corte Costituzionale ha liquidato frettolosamente la censura relativa alla questione della giustizia di prossimità, dall’altro, anche il Guardasigilli, in occasione di varie audizioni parlamentari ha respinto l’accusa di aver indebolito i presìdi di legalità sul territorio tenendo a sottolineare che il riodino della geografia giudiziaria andava nella direzione di «realizzare il giusto punto di equilibrio per recuperare risorse e per garantire un'adeguata copertura del servizio giustizia sul territorio». Obiettivi, questi, preme sommessamente evidenziare, mai raggiunti né dimostrati.  

A conclusione delle riflessioni dianzi snocciolate, non è irragionevole sostenere che un Legislatore disattento ha sacrificato il fondamentale principio della giustizia di prossimità rincorrendo presunti e indimostrati risparmi di spesa. Come nemmeno sarebbe errato ritenere che ha ulteriormente mortificato le aree montane economicamente svantaggiate, abbandonato vasti territori alla mercè di organizzazioni malavitose e inattuato gli ambiziosi obiettivi efficientisti. Siamo convinti che, oggi, un Legislatore assennato ha il dovere di rimediare agli errori e storture commesse riscrivendo parte della geografia giudiziaria con l’obiettivo primario di ristabilire il principio di prossimità. Perciò, A] reistituendo indistintamente i trenta tribunali o, secondariamente, B] istituendo trenta sezioni distaccate laddove preesistevano i tribunali (indicazione, ques’ultima, suggerita al governo dalle commissioni giustizia e riproposta dal Senatore Buemi con d.d.l. n. 1640\2014) o, ancora, C] istituendo, previa valutazione della compatibile coniugazione, nuovi tribunali scaturenti dall’accorpamento di due o più tribunali soppressi (si è parlato da più parti, ad esempio, di tribunali della montagna risultanti dell’accorpamento di più ex tribunali). Privilegiare solo alcuni, recuperando quelli che insistevano in aree contrassegnate da elevati tassi di criminalità, sarebbe un grave errore perché rappresenterebbe un limitato rimedio alla tanto avversata riforma. 

Avv. Fulvio Pironti

Presidente Associazione Forense Nazionale A.M.B.



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