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Lettera al Sindaco di Aequum Tuticum

di , Martedì, 27 Maggio 2014

tratto dal blog lacod@delgatto di Luigi Gagliardi


Sindaco,
tu non hai ancora un nome. Il mio è Ariano e prima di questo ne ho avuti altri che avevano il suono del passo deciso dei cavalli, origini latine e ferro sannita, della tenzone medioevale e del gusto pugliese e prima di questi c’è stato un tempo in cui non ne avevo uno. Me ne stavo qui come terra al vento, fino a quando un giorno di novembre giunsero i pastori dalle lande oltre il Tevere. La vita allora era diversa, non c’erano recinti, non c’erano proprietà, non c’era ricchezza da accumulare. Raccoglievano erbe, uccidevano le pecore, tessevano e vendevano la lana. E poi divennero figli di Federico il Barbarossa che portò dalla Terra Santa le spine del Cristo sceso dalla croce. Io sono il tuo paese.

Sindaco,
non ti racconto la storia del tuo paese e non voglio descriverti le tensioni elettorali di questi giorni. Ti invito a scendere nei vicoli della Guardia di Sopra, affondare per le strade sterrate delle tue campagna fin dentro alle cantine che sanno di vino e formaggio. Vieni a trovarmi nelle vene della tua stessa terra, scaldami il ferro dalla ruggine, fai rivivere la tua lingua madre, zittendo il fiato di chi ha speculato su di me. Vieni a vedere l’ossario che c’è sotto ogni chiesa, soffia come il vento vento freddo che spira per queste valli, siedi alle panchine coi tuoi vecchi, salta i cancelli come i tuoi ragazzacci. Lascia da parte le belle promesse al popolo e ritorno ad essere mio figlio.

Sindaco,
non promettere ma sorridi a quelli che incontri, china il capo e togli il cappello come si fa coi nobili, gli stessi tuoi signori con le mani grosse e callose di chi ha lavorato la terra. Non continuare a dare attenzione alle ingiurie: pensa agli affetti e all'affatto che ha questa gente per il suo Paese. Non chiuderti dentro l’armadio del tuo mal di stomaco chiamato crisi nazionale, non essere tipicamente arianese come chi mangia storto e veloce a tavola solo per correre a spiare dalla porta il vicino.

Sindaco,
non sei fatto per accogliere le lamentele, per stare fermo ad aspettare nel tuo dicastero. Scendi in me, ascoltami, posa orecchie e bocca aperte alle mura dei  tuoi palazzi storici, stendi il cuore come il giallo grano in agosto per le tue contrade. Ricordi le grandi nevicate dell’infanzia, le rondini che gridavano in estate e le persone, i negozi del centro, i bar pieni la domenica mattina e il suono dei piatti che s'univa a quello delle campane in festa? Ora c’è questa nebbia vergognosa, i vecchi che sono rimasti in cinque e certe sere la piazza è piena di macchine parcheggiate ma in giro non si vede nessuno. Io sono il tuo paese, sono i tetti rossi delle case, sono lo scazzamariello, ogni scalino che sale per i vicoli, sono la janara, i vecchi in piazza e  i giovani d'una volta a riempire la villa, sono la vigna e l'aglianico. Io non sono Campania, né Puglia, né Lucania. Ho un clima scandinavo e sono poche le case sono girate verso nord. Sono un mulo accidioso che naviga sul dorso antico di tre colli nell’argilla rossa e con le spine di Cristo nei fianchi.

Sindaco,
Ariano è come un dio e quello che non funziona nell’idea di Dio è che sono sempre idee enormi mai circoscritte. C’è sempre questa frenesia dell’infinito. Forse erano più veri gli dei pagani, uno per ogni cosa. E allora sindaco metti in pratica poche idee, crea e sii il primo ad arrotolarti le maniche, sii l'esempio e dietro di te tutti gli arianesi che venerano il loro paese.



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