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"Racconto Hannah Arendt, ovvero la banalità del male". Incontro con Margarethe Von Trotta

di , Martedì, 28 Gennaio 2014

di Floriana Mastandrea

In uscita il 27 e 28 gennaio in Italia in occasione del Giorno della memoria, "Hannah Arendt", l'ultimo film della regista tedesca Margarethe Von Trotta che porta con brio ed energia i suoi 71 anni.

Margarethe ha vissuto a Roma e ora si divide tra Parigi e Berlino, sua città natale. L'abbiamo incontrata a Genova in occasione dell'anteprima del suo film, Hannah Arendt, nell'ambito del Festival dell'eccellenza al femminile, che le ha conferito il premio Ipazia alla carriera. Il cinema della Von Trotta è politico, femminile  e femminista, del ricordo, anche quando fa male. Ha raccontato l'utopia politica, il terrorismo, la mafia, la sorellanza.                                                                               

Un'altra figura femminile, l'autrice del libro choc, La banalità del male, protagonista della sua cinematografia: com'è nata l'idea?

Avevo scritto il film nel 2003, ma non ero riuscita a trovare i finanziamenti per produlo. La figura della Arendt, filosofa ebrea tedesca, si presta a un racconto vasto, come la sua stessa vita, caratterizzata da una fuga dalla Germania nel 1933, un esilio in Francia, la fuga  anche da lì, e infine l'arrivo in America, senza conoscere una parola della lingua. Mi sono concentrata sul periodo dal 1961 al 1964, allorquando Hannah seguì come inviata a Gerusalemme per il New Yorker, il processo al criminale nazista Adolf Eichmann, dopo che i servizi segreti israeliani lo avevano arestato a Buenos Aires. Nonostante il marito fosse contrario, nel tentativo di proteggerla dal dolore che sarebbe riemerso, lei insistette  testardamente per andare a quel processo. Era una donna determinata, una filosofa rigorosa, un'intellettuale arrogante, conscia del proprio valore. Era una pensatrice acuta, ma dopo le sue  pubblicazioni su Eichmann, fu aggredita e giudicata arrogante in quanto donna. Per comprenderla fino in fondo, ho letto le numerose lettere che scriveva e incontrato la sua amica ancora in vita, che ha anche un ruolo nel film. Mi sono avvicinata a quel "genio dell'amicizia" che sosteneva di non poter amare un intero popolo, ma i suoi amici, prima con timore, poi con amore.

Nel film lei usa immagini di repertorio del processo in cui  vediamo Eichmann nella gabbia di vetro che appare in tutta la sua "piccolezza da omino": crede che questo aiuti lo spettatore a giungere alla stessa conclusione della Arendt, ossia che quel gerarca "era un banale burocrate incapace di pensare autonomamente"?

Alcuni storici sostengono che Eichmann si sia finto tonto, ma il suo linguaggio colpisce, è da burocrate incapace di formulare una frase grammaticalmente corretta. Non credo che su questo si possa fingere: nessuno, a mio avviso, può manipolare il linguaggio fino a questo punto. Basta osservare la sua risposta alla domanda del giudice in tedesco sul "coraggio civile", che avrebbe potuto cambiare molte cose. Eichmann risponde di sì e contemporaneamente disegna con la mano nell'aria una sorta di gradinata: "Se tutto fosse stato costruito gerarchicamente forse anch'io avrei..."  Non gli viene in mente null'altro che unire due argomenti contrapposti: il coraggio del singolo e la struttura gerarchica. Questo dimostra, dunque, come dice la Arendt, che il burocrate autore di ordini crudeli, non è capace di pensare in profondità, è un mediocre respingente. Con la sua teoria sulla "banalità del male", la Arendt ha dimostrato che Eichmann non era un mostro satanico, ma un uomo banale, come tanti altri omiciattoli che c'erano dietro gli orrori nazisti. Le polemiche feroci, gli attacchi politici e personali, che questa sua conclusione sul personaggio comportò, la fecero molto soffrire: molti amici soprattuto ebrei, la allontanarono. Fu ritenuta supponente e priva di cuore, ma quando riteneva di aver riconosciuto qualcosa come verità, non era disposta a cambiare idea, a compromessi.

Lei è stata un'antesignana della regia al femminile: è stato difficile? 

Le donne hanno fatto parecchia strada rispetto a quando ho cominciato io, ma molto c'è ancora da fare. É necessario rendere il mondo più femminile, e promuovere una mentalità che si basi sulle capacità professionali, non sulla mercificazione del corpo femminile. Negli anni Sessanta, fare l'attrice era l'unico modo per entrare nel mondo del cinema, io ho avuto come maestro Fassbinder, terribile come uomo, ma dalle idee chiarissime come regista. Allora la regia apparteneva al mondo maschile, ma appena ho potuto, ho cominciato a farla anch'io.

Come vede la situazione politica italiana?

Amo L'Italia e ci torno volentieri appena posso. Mi pare che Berlusconi stia sparendo di scena: all'estero è visto molto negativamente perché ha portato il Paese alla rovina sia economica, sia morale. L'Italia non è mai stata un paradiso politico, ma al totalitarismo berlusconiano preferivo i governi che cadevano. Quando guardo i talk show coi politici che continuano a straparlarsi addosso, mi chiedo se tutto questo cambierà mai.

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